[In distribuzione] Come è stato #15o

Lo stato non può in alcun caso tollerare […] che delle singolarità facciano comunità senza rivendicare un’identità.

Giorgio Agamben
 
 
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la vera devastazione

Molte sono le cose per cui viene ricordato il 15 ottobre del 2011 a Roma. Tra le tante, una rimane per noi particolarmente significativa: quel giorno, in piazza San Giovanni, si è espressa nella rivolta quella che chiamiamo la politica del non-soggetto. Quel che più importa di quella giornata, infatti, non sta nel fatto che nessun gruppo, struttura o coordinamento dirigesse la sommossa o che nessuna organizzazione con ambizioni egemoniche abbia potuto praticare il suo misero obiettivo, ma quello che per qualche ora tutti hanno visto: la resistenza si accompagnava alla distruzione delle identità prodotte dal capitalismo.
Nella città rivoltata non c’erano più soggetti identitari – operai, studenti, precari, squatters, femministe o disoccupati – ma una esistenza comune lanciata in un divenire rivoluzionario. D’altronde questa felice indistinzione, questa cancellazione pubblica delle identità, è ciò che connota ogni festa come ogni rivolta, entrambe vocate alla sospensione temporanea del continuum storico. Anche per questo non fu necessario arrivare sotto i cosiddetti palazzi del potere per mettere in crisi gli apparati di controllo e di governo. Se vi è qualcosa che sfida apertamente il management imperiale è l’opacità di chi gli sfugge, gli si oppone, gli resiste: l’apertura di un varco spazio-temporale inoltrepassabile dal potere quanto permeabile al suo altro.
La strategia contro-insurrezionale reagì immediatamente per arginare lo sciopero della metropoli e non solo con le cariche, i caroselli dei blindati, i pestaggi e gli arresti. I media si schieravano infatti nell’arena della guerra civile globale invitando la parte onesta e ‘perbene’ della popolazione e dei movimenti alla delazione. Bisognava subito re-identificare, riclassificare, individualizzare la protesta, “costruire socialmente il nemico interno”. Come successo già in Inghilterra, negli Usa, in Spagna, in Egitto, in Tunisia, in Grecia, in Cile… Perché se l’Impero è ovunque, lo è anche la guerra civile che lo divide ma, attenzione, non è la sommossa a rivelarne la presenza, è l’esistenza quotidiana a definire il campo di battaglia, la nostra giornaliera dose di miseria e di felicità di plastica è la ‘guerra sociale’ che ci viene mossa, è l’ingiunzione a essere qualcuno e allo stesso tempo quella a non disturbare troppo una società costruita come fosse un enorme carcere esistenziale a disegnare i contorni di questa civiltà. È questo ambiente di soffocante familiarità che va definitivamente devastato. Una risata a volte è sufficiente.

dello stato d’eccezione, ancora

Del resto l’ordine democratico si regge ormai in gran parte su vecchie e nuove leggi speciali, promesse di carcere, servizi d’ordine e delazioni.
La ‘democrazia reale’ in cui viviamo ricorre costantemente a leggi speciali e misure straordinarie di governo che implicano l’uso massiccio di forze armate e la sospensione di norme costituzionali poste, presuntamente, a tutela delle libertà individuali. Da Bolzaneto alla gestione delle popolazioni terremotate dell’Abruzzo, dai C.I.E. alla militarizzazione del territorio in Val Susa “lo stato d’eccezione […] in cui viviamo è diventato regola”. La legislazione attuale è formulata in modo tale da risultare priva di qualunque contenuto prescrittivo, o meglio è suscettibile di essere riempita di qualunque contenuto utile al compimento della strategia contro-insurrezionale in corso. Infatti il reato di devastazione e saccheggio, ormai ripetutamente utilizzato come forma di controllo dei movimenti, e ancora una volta utilizzato per punire ‘i riottosi di piazza San Giovanni’, è strumentalmente formulato in maniera aperta, il ché non toglie affatto la possibilità di scorgerne il suo profilo politico. Come sempre i processi, il carcere, le chiacchiere di destra e di sinistra servono a manipolare il ricordo della rivolta, a ricacciare quell’immagine ‘festosa’ di piazza San Giovanni nella fiera globale della follia metropolitana.

giudizio

Ad oggi, sono sei le condanne in primo grado per devastazione e saccheggio, resistenza e lesioni a pubblico ufficiale pluriaggravate per l’assalto al blindato dei carabinieri nel corso degli scontri il 15 ottobre. I compagni arrestati e sottoposti alla domiciliazione forzata, tra l’altro, non sono stati arrestati in flagranza di reato ma identificati dai video a disposizione delle forze dell’ordine, probabile fruttuoso esito dell’istigazione alla delazione o comunque della strategia contro-insurrezionale perseguita in stretta connessione da organi di polizia e dell’informazione ‘libera’.

la tecnica

La condotta di devastazione e saccheggio è prevista nel codice penale in due norme:
l’art. 285 c.p., che punisce chiunque commette atti di devastazione e saccheggio allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato. E’ la fattispecie più grave, ed è punita con l’ergastolo;
l’art. 419 c.p., che invece punisce gli atti di devastazione e saccheggio non finalizzati a pregiudicare la sicurezza dello Stato, ma che possono invece compromettere l’ordine pubblico. E’ punito in maniera meno grave rispetto al primo, ossia con la reclusione da otto a quindici anni.
È quest’ultimo che viene contestato per i fatti del 15 ottobre, ed anche rispetto a quest’ultimo vale la regola della non regola, la formulazione aperta per cui non è specificato quando un comportamento possa qualificarsi come atto finalizzato alla devastazione o al saccheggio. E’ quindi il giudice che, caso per caso, valuta se una determinata condotta possa integrare il reato di cui al 419 c.p.
In questo senso la giurisprudenza (peraltro esigua) in tema di devastazione e saccheggio configura il reato non come una serie di danneggiamenti o rapine, bensì come atti che possano pregiudicare in maniera effettiva la vita collettiva, identificata integralmente con l’ordine pubblico.
E’ evidente la vaghezza del legislatore: non essendo strettamente tipizzata la condotta, si lascia alla magistratura una enorme discrezionalità. Inoltre non si comprende come un unico soggetto possa compiere tanti atti di danneggiamento cosi gravi da configurare un’attività di devastazione. Da qui la necessità di un concorso, anche morale (come confermato dalla Cassazione nel luglio del 2012 per i fatti di Genova), con altre persone: concorso morale che identifica non una partecipazione attiva, concreta, al compimento di atti di devastazione o saccheggio, ma anche una semplice presenza sul luogo dei fatti che possa in qualche modo supportare l’attività di chi compie il reato (si vedano le recenti denunce per i fatti del #15O, dove è sufficiente sorridere a metri di distanza da un blindato in fiamme per essere accusati di devastazione e saccheggio).
Dall’indeterminatezza dell’art. 419 c.p. emerge quindi in maniera chiara la sua natura repressiva e conseguentemente politica: se infatti non si specifica quando un comportamento può configurare un atto di devastazione o saccheggio, è evidente che questo permette alla polizia innanzitutto di arrestare in maniera indiscriminata, e in secondo luogo, al giudice e alla magistratura di riempire il concetto a piacimento.

origini

Se è indubbia una certa continuità del diritto penale tra regime liberale, fascista e repubblicano, non dobbiamo perdere di vista le cesure che nel corso degli ultimi decenni hanno reimpostato le forme della sovranità moderna e della sua cultura giuridica o sottovalutare i legami, spesso sotterranei, che l’attualità intrattiene con le sue origini. E le origini del reato di devastazione e saccheggio non sono nel fascismo ma affondano nella nascita dello Stato moderno.
La storia del reato in oggetto trova le sue radici nel codice napoleonico del 1810, poi applicato nei diversi regni italiani, fino alla sua formulazione liberale nel codice Zanardelli del 1889. Di passaggio ricordiamo che sarà proprio Napoleone, nel 1811, a introdurre l’articolo di legge concernente il moderno “stato d’eccezione”. Manco a dirlo Giuseppe Zanardelli era un deputato della “sinistra” e aveva lui stesso partecipato in gioventù a eventi insurrezionali nel 1849. Il reato di devastazione e saccheggio fu connesso originariamente in modo esplicito al rischio di guerra civile e introdotto anche nel nuovo Stato italiano per punire i protagonisti dei diversi moti che lo attraversarono in quel secolo, all’alba del movimento operaio e contadino. Era dunque un reato politico, nel senso profondo che questo concetto esprime, cioè la forma che il governo dà al rapporto col suo altro, a quello che percepisce come ostile, nemico.
Il codice Rocco, durante il fascismo, mantenne ma riformulò il reato omettendo ciò che di “politico” vi era contenuto, puntando tutto sulla sua definizione in quanto reato comune che aveva come suo effetto la messa in pericolo della sicurezza dello Stato. Il fascismo, al contrario di quanto si crede normalmente, in realtà spoliticizza i comportamenti sovversivi, riducendoli a fatto puramente delinquenziale. Il problema sarà da quel momento in poi scongiurare con ogni mezzo che il fatto politico contenuto in determinati comportamenti, l’evidenza delle amicizie e delle inimicizie interne, cioè la guerra civile, sia un fatto riconoscibile da chiunque ma, allo stesso tempo, rendere lo stato d’eccezione un fatto “normale”.

casus belli

Il reato di devastazione e saccheggio, dopo la seconda guerra mondiale, venne inizialmente contestato dopo i moti di piazza successivi al ferimento di Togliatti nel 1948, quando migliaia di persone scesero in piazza – anche armate – ; oppure dopo i fatti del giugno 1960, per le manifestazioni di protesta contro il governo Tambroni. Momenti quindi di scontro sociale fortissimo e dal carattere pre-insurrezionale. Forse proprio per questa sua storia contraddittoria durante gli anni Settanta non fu mai utilizzata l’accusa di devastazione e saccheggio contro un antagonismo organizzato che non faceva mistero del suo voler insorgere contro i poteri costituiti. In presenza di un movimento esteso, profondo e organizzato fu preferita all’epoca la via delle accuse di terrorismo e di banda armata per meglio isolare il fenomeno sovversivo.
Il reato ricominciò ad essere contestato verso la fine degli anni ‘90, all’epoca della definizione dell’attuale strategia imperiale della contro-insurrezione, nei confronti di soggetti identitari marginali nella società e che non godono del favore dell’opinione pubblica e perciò meno ‘difendibili’ rispetto ad altri. Nel 1998 infatti, vengono indagati per devastazione alcuni partecipanti ad un corteo a Torino per protestare contro la morte di Edoardo Massari, che si era concluso con una breve sassaiola contro il palazzo di giustizia; nel 2001 vengono condannati per lo stesso reato alcuni ultras, che al termine di una partita avevano ribaltato un furgone per ostacolare le cariche della polizia; oppure ancora, nel 2003 per gli scontri durante Avellino-Napoli; nel 2004, dopo il derby Lazio-Roma sospeso; oppure ancora, nel 2007, in seguito agli assalti ai commissariati dopo la morte di Gabriele Sandri.
Lo stadio, del resto, ha svolto per molti versi il ruolo di laboratorio contro-insurrezionale: negli ultimi venti anni, infatti, nei confronti degli ultras sono state applicate forme di repressione, estese poi nel corso del tempo a cortei, manifestazioni di piazza, e più in generale ad ogni forma di dissenso contrapposizione ( vedi ad esempio, il recente dibattito, scaturito dopo gli scontri in piazza del popolo del 14 dicembre 2010, sulla possibilità di estendere la diffida (DASPO), misura preventiva, che comporta il divieto di accesso alle manifestazioni sportive per i pregiudicati o persone con carichi pendenti, anche alla disciplina per la garanzia dell’ordine pubblico nei cortei).
La ‘sperimentazione’ giunge al suo termine con i fatti del g8 di Genova del 2001 (10 le condanne per devastazione e saccheggio, la più lieve delle quali è di 6 anni e 6 mesi mentre la più grava di 15 anni ) e le condanne nei confronti dei manifestanti arrestati in seguito agli scontri in Corso Buenos Aires dell’11 Marzo 2006 durante il corteo antifascista contro la sfilata della Fiamma Tricolore, a Milano: 4 anni di carcere per 16 militanti antifascisti, con rito abbreviato (che prevede lo sconto di un terzo della pena).

la linea del fronte…

Oggi ci troviamo probabilmente di fronte a un ibrido: da un lato sembra che la giurisprudenza di Stato riscopra le origini del reato – la guerra civile – ma, dall’altro, deve continuare a negarne il valore politico per occultare il fatto che vi sia inimicizia all’interno della ‘comunità statuale immaginaria’ e qui solamente emerge la continuità tra fascismo e democrazia, preferendone appunto la riduzione a reato comune.
Sorge il sospetto che sia per questo che coloro che negli ultimi processi sono stati raggiunti da questi provvedimenti non sono personaggi riconducibili facilmente a delle strutture politiche ma “singolarità qualunque”, plebe che è altrettanto facilmente riducibile a forma di vita criminale, schiuma, pura eccedenza del corpo sociale. Ma, più sottilmente, questo fatto fa segno che sotto il dominio dell’Impero ogni vita è criminale, al di là di ogni suo effettivo comportamento. In questo senso non solo è ingannevole la divisione tra colpevoli e innocenti ma lo è anche il presentare ogni accusato, ogni prigioniero, come “vittima” della repressione o “martire” della libertà. Bisogna essere conseguenti alle evidenze e rintracciare ovunque la linea del fronte, gli amici e i nemici, e questo fin dentro noi stessi. Inoltre, anche rispetto alle posizioni che spesso vengono prese dentro i movimenti, questa veloce carrellata storica fa comprendere che gridare al fascismo – intendendo quello “storico” – non porta molto lontano, abbiamo anzi il sospetto che faccia indietreggiare la discussione e le possibilità pratiche di affrontare ciò con il quale ci troviamo a combattere.
Comprendere la contro-insurrezione significa capire che il paradigma della “lotta alla repressione” non regge davanti al fatto che la Legge è oggi uno dei modi di gestire e produrre la popolazione e non una forma di cattiveria dello Stato contro un pugno di oppositori. L’obiettivo di queste condanne esemplari non è quello di far prendere le distanze del grosso della popolazione dai “sovversivi”, ma di intimidire la parte di plebe che è in tutti e ciascuno, di impedirgli di passare all’atto. Di farmi prendere le distanze dal sovversivo che cova dentro di me, e far vincere il cittadino che sono stato addestrato ad essere. E se il concetto di “politico” ha il senso di nominare la relazione di ostilità, lo fa nel senso di definire un rapporto che il governo intrattiene con l’alterità, anche di quella del sé con il proprio sé. In questo senso il diritto è performativo, crea ciò che nomina, e a questa sua caratteristica bisogna prestare il massimo d’attenzione, sia per non cadere nell’identificazione col “nemico interno” costruito dal governo e che questo non esiterà ad annientare, sia per evitare l’identificazione con la norma imperiale che ci vuole appunto tutti riconoscibili in quanto suoi cittadini, neutralizzando ciò che di politico resiste nella vita “qualunque”.

… e quella di condotta

Da diverse parti sono arrivate critiche, pur se ‘gentili’, ai compagni condannati per la loro scelta di accettare il rito abbreviato in cambio dello sconto di pena e dunque evitare l’entrata in carcere. Tutte critiche sagge, per carità, rivolte a far emergere l’importanza che avrebbe ogni volta la scelta opposta, di un rito ordinario cioè che permetta di sviluppare un’operazione politica rispetto al processo. Ma davvero non ci sentiamo di biasimare chi non si è sentito di fare quella scelta. Chiunque volesse affrontare il rito ordinario avrebbe bisogno di un sostegno materiale, affettivo e politico che i movimenti non sono in grado di offrire al momento. Il fallimento della “campagna” per l’ultimo processo di Genova, che in teoria avrebbe dovuto coinvolgere moltissimi, è lì a dimostrarlo. È evidente, anche negli ultimi casi di cui stiamo parlando, se non la mancanza quantomeno la debole fiducia dei compagni colpiti verso qualcosa che esiste solo a parole. Ed è giusto non immolarsi per fede ideologica e limitare quanto più possibile i danni.
Il rapporto di forza che dovrebbe essere alla base della scelta del rito ordinario deve nutrirsi di pratiche articolate, diffuse e di lunga durata. Non è un caso che il solo processo che abbia permesso di costruirne uno è quello torinese contro i compagni e le compagne che hanno partecipato alle lotte no-tav. Lì è stato possibile, nonostante si sia stati colpiti individualmente da denunce per reati comuni, una difesa coordinata, collettiva e quindi politica, sostenuta concretamente da una vasta mobilitazione nazionale e non solo, permettendo la costruzione di un pool di avvocati e di pratiche di lotta interne ed esterne alle aule di tribunale. A fronte della potenza di una tale strategia i presidi di “cordoglio” esterni, il sostegno “cristiano” ai prigionieri, l’ideologia della lotta alla repressione mostrano tutti i loro limiti. Ancora una volta invece si dimostra che solo la costruzione di un movimento rivoluzionario permette l’offensiva verso l’apparato repressivo.
Come ormai tutti sappiamo, una barricata taglia i flussi ma libera spazio e così solo la tessitura di un piano esteso di amicizia politica che è organizzazione, di intensità affettiva che è forza, permette di fare blocco contro il nemico. E di riguadagnare la fiducia.

 

In amicizia politica. In autonomia.

Alcuni amici del partito immaginario